Narrazione e Teatro

Le storie in valigia
di Marcello Amoruso 

Prima della prima e alla fine di tutto
Ci preparavamo al laboratorio di Narrazione e Teatro con in mente libri e autori che da anni accompagnavano i percorsi teatrali della Scuola. Certamente Augusto Boal e il Teatro dell’Oppresso, a ricordarci che corpo e sensi sono prolungamenti
della mente: liberarli rende meno oppressi noi e più libero il nostro esercizio di pensiero e di parola. Accanto a lui Viola Spolin, Keith Johnstone e Jonathan Fox, la madre feconda e i figli prodighi del teatro d’improvvisazione, che ci suggerivano tecniche per liberare la spontaneità e trasformare le storie narrate in narrazioni sceniche. Gianni Rodari, il quale ci dava la possibilità di riflettere sul fatto che se la fantasia ha una grammatica ha dunque delle regole che servono a liberarla non certo a contenerla. E poi Salvo Pitruzzella e Franco Lorenzoni, che ci offrivano le analisi più lucide in ambito italiano e non solo sui fondamenti della narrazione, sul come e il perché usarla.
Gli autori sopra citati erano le nostre bussole, un ancoraggio teorico e pratico di un percorso che un po’ ci spaventava e che avrebbe soccorso e contenuto eventuali debolezze, tentennamenti, imprevisti, cambi di rotta. Aspettavamo l’inizio con un sano timore, quello che ci accompagna sempre prima dell’inizio di un corso. Tuttavia qui due elementi di novità ne accentuavano l’entità: da un lato, svolgevamo il corso fuori dall’università, nell’oratorio di Santa Chiara, che sebbene luogo noto a tutti in città, simbolo delle politiche d’integrazione, rappresentava, anche solo architettonicamente, un elemento estraneo alle familiari pareti delle aule della Scuola; dall’altro lato, mettevamo insieme persone con storie di vita radicalmente diverse, chiedendoci se questo avrebbe inibito le narrazioni e la messa in scena delle storie narrate. Per meglio dire, insieme quelle storie le avevamo messe già da tempo nei corsi ordinari di lingua, senza che questa scelta avesse mai dato adito a ripensamenti: la convivenza aveva sempre funzionato, e degli uni e degli altri emergevano i punti di forza. Tuttavia qui le storie sarebbero state esplicitate, sarebbero diventate pubbliche. Qui era un pezzo di intimità, a volte cruda e cruenta, che avrebbe incontrato altre vite in cui certa crudezza era stata solo immaginata.  Un minore non accompagnato, che vive il proprio viaggio con un sentimento di lacerazione sebbene teso alla costruzione di qualcosa in un altrove, avrebbe avuto voglia di raccontarsi a una studentessa cinese inserita in un programma di interscambio universitario tra l’università di Chongqing e Palermo, il cui viaggio era segnato al massimo da un sentimento nostalgico a scadenza ravvicinata? Questa domanda ci avrebbe accompagnato durante tutto il corso e non ci avrebbe abbandonato dopo, ma abbiamo imparato ad aggiungerne almeno altre due: quanta voglia ha un minore di raccontarsi a una studentessa cinese che forse non potrà capire le ragioni che hanno suscitato quella storia? E quanta voglia ha una studentessa universitaria cinese di raccontare una storia di microfonate partenze e microfonati arrivi aeroportuali, di attese e di speranze composte, di fronte a storie sgangherate e imprevedibili in cui è difficile individuare con chiarezza partenze e arrivi, e che certamente affabulano e affascinano di più? E anche queste domande assumono con forza l’approssimazione di domande poste male se messe all’inizio di un percorso che non ha ancora possibilità di un confronto con la fine. E alla fine, riguardando le registrazioni in video, sembra che i minori, rallegrati da una piacevole presenza femminile avessero una gran voglia di raccontare storie muscolari, coraggiose, intime, a tratti ‘epiche’ e cruente, e che tutte le ragazze, tutti noi, presenti in quel percorso avevamo voglia di raccontare le nostre storie, che erano belle perché appartenevano in profondità a ciascuno di noi, per quanto meno muscolari, coraggiose e affabulanti di quelle condivise dai minori. Ma quello che più conta è che tutti noi, nessuno escluso, avevamo una gran voglia, quelle storie, di ascoltarle.

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Iniziamo
La prima lezione l’11 gennaio 2014. Sabato, poco dopo pranzo, alle 14.00. Complessivamente sarebbero stati dodici incontri di tre ore, sempre di sabato, stesso orario. Iniziamo con un caffè davanti alla macchinetta all’ingresso del Centro d’accoglienza per immigrati Santa Chiara. Aspettiamo i ritardatari, alcuni sono già con noi. Un rituale che si sarebbe ripetuto per l’intera durata del laboratorio insieme a un altro. Davanti all’ingresso, su un muretto, trovavamo sempre degli adulti africani che giocavano a dama. Una dama africana, enorme, poggiata sulle gambe di due animosi sfidanti, e attorno un gruppetto di sostenitori. Tutti africani.
Una scena vista e rivista centinaia di volte, vista da chiunque sia entrato a Santa Chiara in una giornata non troppo fredda e senza pioggia. E però in quel momento, in tutti quei momenti in cui consumavamo il nostro caffè prima di iniziare, forse perché ci accingevamo a dare inizio a una lezione di narrazione e teatro, venivano in mente immagini sulle storie di quelle persone. Che legame c’era tra quel gioco e l’infanzia di quelle persone cresciute oltre il deserto del Sahara? Che posizione aveva quella dama nei loro ricordi d’infanzia? Quanto li ricongiungeva al loro passato?
Queste erano le domande di chi scrive, non sempre fatte, a volte solo accennate da uno sguardo di intesa. Ma quali le domande dei ragazzi che erano con noi sulla porta e di quelli che sarebbero arrivati dopo? Cosa pensavano Mohamed, Abdoulie, Malick, Yankuba, Musa? Cosa pensavano guardando quella dama e i sogni apparentemente assopiti di quei signori, loro che, partiti dal Gambia, non abbandonavano mai il vivido sogno di diventare calciatori? Loro che non hanno mai desistito dal chiederci a inizio di ogni lezione: «ma perché non andiamo a giocare a calcio oggi?».
Cosa hanno pensato Lamin, Pap, Chiekh, partiti dal Senegal con il sogno di diventare dj e cantanti rap? Loro, abili ballerini e dinoccolati a tal punto da pensare che fosse possibile crederci. E cosa Lamin, omonimo di quello già citato, dinoccolato quanto i primi se non di più e con una grande passione per la capoeira?
E cosa Demian? Lui li avrebbe certamente salutati se solo si fossero distratti per un attimo rivolgendogli lo sguardo. Demian, che accoglieva tutti con un sorriso rassicurante, porgeva le guance per il rituale bacio ed emetteva un italiano, italianissimo, flemmatico ciao, dopo averlo pasticciato un po’ tra i denti e avergli dato una leggera pronuncia egiziana. Un ciao che tutti gli italiani conoscono, con quei toni bassi sulla i e sulla o e un’impennata tonale su una a prolungata per mostrare la durata di quei bassi che accolgono. Insomma, sarebbe stato piacevole anche per i giocatori di dama salutarlo. Chissà cosa pensava Demian di quei lunghi pomeriggi che quei signori trascorrevano giocando, lui che non si fermava mai, sempre in cerca di un lavoro e di un senso da dare alle sue giornate. Demian avrebbe abbandonato il corso a metà, avrebbe lasciato Palermo per cercare un lavoro a Milano che di lì a poco avrebbe trovato. Lasciava la Scuola di italiano dopo circa un anno di frequenza ai corsi. Pochissime assenze e sempre presente alle iniziative parallele che la Scuola organizzava. Sarebbe persino tornato il 19 ottobre, in occasione della presentazione del film Butterfly Trip e della
mostra fotografica A-tratti, entrambi proseguimento e conclusione (?) del percorso laboratoriale L’isola che (non) c’è, di cui quanto qui descritto rappresentava solo il primo passo. La presentazione delle due iniziative artistiche avveniva a conclusione dei primi due anni di progetto con i msna e veniva ospitata all’interno della manifestazione universitaria Le vie dei tesori, che nell’edizione 2014 si proponeva di offrire uno sguardo sulla «città dai mille volti»: buoni motivi entrambi per desiderare la presenza di Demian. Cosa pensasse Al Lamin, partito dal Bangladesh con attese che non conoscevamo, non ce lo siamo chiesti. Forse in segno di rispetto per la sua timidezza, i suoi prolungati silenzi, il suo carattere sempre dimesso, difficile da decifrare, che si ‘accendeva’ quando gli parlavi guardandolo negli occhi e svelava quella vispa e scomposta curiosità tipica della giovane età. E cosa Milad, ragazzo iraniano richiedente asilo appassionato di teatro, il quale aveva senza esitazione risposto di sì al nostro invito a partecipare al laboratorio. Chissà che non abbia aperto il suo dizionario persiano-italiano (sempre aperto alle parole e oggetti che si trovava di fronte) e cercato la parola scacchiera. Quanto strani dovevano apparire i giocatori di dama a Wang e Liu, due studentesse cinesi della Sichuan International Studies University, in residenza di studio all’università di Palermo e alla Scuola di italiano? Loro che in Cina vedono pochissimi africani, meno che mai in una scena di sollazzo pomeridiano. E quanto strano doveva apparire l’Albergheria, il quartiere ad altissima densità di africani che attraversavano per raggiungere Santa Chiara? Di queste e di altre cose riflettevamo insieme a Quyên, Erminia, Francesca, Mara, ed Emanuela (presenti le ultime tre nel volume di seguito a questo intervento), studentesse neolaureate e laureande della Facoltà di Lettere, che per diverse ragioni avevano scelto di offrire il loro contributo al progetto con i msna. Studentessa per diversi mesi nei corsi di lingua della Scuola, appassionata di teatro e con notevoli doti performative, Quyên aveva deciso di dedicare la sua ricerca di laurea all’uso del teatro come strumento per l’apprendimento linguistico. La sua tesi, Process drama: la restituzione della spontaneità, collocava la ricerca sul campo in un laboratorio di “Italiano e Teatro” realizzato all’interno della Summer School 2013 della Scuola di Lingua italiana per Stranieri. La scelta di partecipare al laboratorio a Santa Chiara si legava dunque alle sue attitudini artistiche e alla volontà di contribuire alla realizzazione di uno spettacolo di cui si parlerà più avanti.
Anche Francesca aveva scelto come spazio di osservazione per la sua ricerca di laurea, Corpi e lingue in movimento, nello stesso corso di “Italiano e Teatro” di cui si è detto sopra, sebbene la discussione della stessa sarebbe giunta qualche
mese più tardi. Decideva di partecipare al corso con l’obiettivo di vedere applicate le tecniche teatrali all’interno di un contesto d’apprendimento molto diverso, molto più contaminato rispetto al precedente, sia in termini umani che linguistici. Erminia, che nella Scuola di italiano aveva svolto un tirocinio osservativo in classi ordinarie di lingua e aveva avuto modo di conoscere alcuni minori da vicino attraverso un intervento didattico di rinforzo a loro rivolto, sceglieva di approfondire la conoscenza del profilo linguistico e umano di questi ragazzi prendendo parte al laboratorio di Narrazione e Teatro. Da lì la decisione di dedicare l’argomento della sua tesi a “Teatro e tecniche teatrali in glottodidattica”. Mara ed Emanuela conoscevano abbastanza bene alcuni dei minori che partecipavano al laboratorio a Santa Chiara, avendo svolto un periodo di osservazione all’interno di due corsi precedenti al laboratorio (cfr. Piraneo e Chinnici in questo volume). Mara osservava i modelli di intervento linguistico, che sarebbero confluiti qualche mese più tardi in una tesi dal titolo Analfabetismo e lingua se conda; Emanuela allargava il suo interesse antropologico per le migrazioni verso contesti educativi ancora poco battuti nell’ambito della ricerca etnografica. Il corso di Teatro e Narrazione costituiva quindi un ulteriore punto di osservazione.
Il tempo volava e il caffè l’avevamo già finito. Don Enzo, che sovrintende alla gestione di tutti gli spazi di Santa Chiara, ci apriva la stanza in cui avremmo passato per circa tre mesi i nostri sabato pomeriggio. Arrivava anche Antonio, il nostro fotografo, preceduto dalla sua macchina fotografica sempre appesa al collo. E ci chiedevamo se avesse fotografato i giocatori di dama. Eravamo tutti, potevamo iniziare.

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Qualche sedia, qualche santo e l’angolo rosso.
Raccontare storie in un luogo simbolo di integrazione
Come entrare a Santa Chiara a raccontare storie senza pensare alla lunga storia che quello spazio conteneva già prima di noi? Eravamo solo una testimonianza, un’altra ancora, delle innumerevoli azioni di integrazione che hanno segnato per oltre quarant’anni l’attivismo di cui il centro Santa Chiara era richiamo e snodo, in un quartiere come l’Albergheria in cui le tante famiglie e i giovani che lo abitavano era già tanto se prendevano consapevolezza di un diritto, figurarsi rivendicarlo. In un tessuto socialmente inerme, sfilacciato, attento unicamente a come arrivare alla sera, si irradiava l’azione di don Rocco Rindone, fondatore nel 1972 della Casa Santa Chiara. Una azione terminata dieci anni dopo, abbastanza perché non fosse più dimentica.  Dopo lui Don Meli proseguiva un percorso con la stessa energia già messa in campo dal predecessore. Aveva trovato la forza per denunciare una drammatica storia di abusi familiari su alcuni minori del quartiere. Ma quanta forza era necessaria per compiere guerre enormi e allo stesso tempo costruire ponti di integrazione, creare un modo per fare ed essere comunità? Oggi Don Enzo Volpe, voce di spessore, umano e oratorio, nelle iniziative in cammino verso una società di ponti, di incontri, di crescita di integrazione. Persona sempre disponibile ad aprire le porte di Santa Chiara a cittadini di tutte le parti del mondo che chiedono spazi di costruzione, condivisione e, perché no, rifugio. Il laboratorio di Narrazione e Teatro qui presentato è testimonianza di tale apertura. In questo spazio pieno di storie, in una stanza grande e disadorna, con le sedie a schiera allineate una dietro l’altra, qualche immagine di santi e murales raffiguranti scene religiose ritagliavamo il nostro angolo rosso. Quattro lunghi lenzuoli di colore rosso, che noi immaginavamo come sipario piuttosto che fondale, dietro al quale (le quinte per intenderci) ci rifugiavamo per non esporci troppo. Quattro lunghi teli rossi che all’inizio di ogni lezione appendevamo a un filo fissandoli con delle mollette. Sarebbe stato questo il nostro angolo rosso.  Iniziavamo il nostro rituale di montaggio. Collocavamo sotto un tavolo e sopra una sedia per raggiungere l’appiglio. Ce ne occupavamo noi, per non fare correre alcun rischio ai nostri ‘narratori’. Ma già in questo tempo che precedeva l’inizio delle attività tra noi si creava un senso di intimità, di complicità, misuravamo il senso di un’alleanza, di uno stare insieme pacifico. E tutte le volte che salivamo su quella sedia in un equilibrio instabile esponendoci più dei minori per proteggerli dai rischi, loro ci guardavano da sotto, proteggevano noi se mai quel traballante equilibrio si fosse rotto. Noi sopra per protegger loro, loro sotto per evitare che ci facessimo male. Tutto era andato bene, per fortuna, sempre.

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Mettiamo le storie in valigia
Erano arrivati su dei barconi. Questo lo sapevamo. Avevano viaggiato per giorni. Anche questo sapevamo. Loro ce l’avevano fatta, altri compagni di viaggio no. Questo lo sapevamo e non lo sopportavamo. Scene forti, da brivido, che ti fanno drizzare le orecchie quando le ascolti in televisione. E però prive di intensità narrativa. Perché? Forse perché piene della retorica giornalistica? Forse perché passano di bocca in bocca tra un caffè e un cappuccino al bar, espresse senza troppe emozioni da persone che vanno di fretta prima di riprendere posizione dietro a una scrivania? Perché quelle storie trite non assomigliavano affatto a delle storie? Forse perché un foglio bianco e una penna su un frigo ci fanno pensare all’elenco della spesa piuttosto che a una storia? Una storia per essere tale deve potere avere una giusta collocazione, un’adeguata cornice. Il suono di una chitarra suonata da un virtuoso intorpidito dall’ennesima volta tra i tavolini di una pizzeria per turisti non assomiglia forse più a una pantomima piuttosto che a una musica? Chissà cosa pensavano lungo il loro viaggio in barca? Chissà se era possibile estraniarsi per qualche secondo durante quel viaggio e ricordare la mamma, un fratello, i propri cari? I barconi li immaginavamo sporchi, stretti e maleodoranti ma cercavamo immagini limpide. Cercavamo le storie dentro a quelle barche. E una storia, qualunque storia, noi la immaginavamo bianca, limpida, abbagliante e bella. Una storia è una storia se innesca dei ricordi, se stimola la tua immaginazione. Una storia è anche quella di una donna che ti vomita sulla schiena dopo interminabili onde, se dopo averla raccontata ‘ci ridi’ o ‘ci piangi su’. E ci ridi e ci piangi su se la racconti nel posto giusto: che sia un libro, un documentario, la voce di un narratore in una piazza o Santa Chiara poco importa. Ecco cosa è stato il laboratorio di Narrazione e teatro a Santa Chiara. È stato il posto giusto. E poi cercavamo le storie prima delle barche, quelle durate mesi, per alcuni di loro anche un anno. Quelle che scegli, fatte di tappe intermedie a lavorare in un campo agricolo o con un amico meccanico conosciuto lungo il tragitto. Tappe necessarie per raccogliere i soldi da offrire a farabutti e proseguire il viaggio prima e dopo il deserto del Sahara. E poi le storie che non scegli e che ti fanno ancora paura mentre le racconti. Storie passate in un carcere libico, dove puoi rimanere per mesi ignaro di tutto, stordito dall’attesa, e finisci per smettere di dare risposte ai perché.
E ancora, cercavamo le storie dell’infanzia, dei ricordi lontani, di un amico o di una ragazza a cui sei tuttora legato. E cercavamo le storie del presente, alcune piene di sogni, altre vissute con disincanto. E infine c’erano le storie che non cercavamo affatto, quelle che non avremmo voluto sentire. Storie di morte e di morti. Qualche volta a Scuola, ora che li conoscevamo meglio, ragionavamo sul senso di smarrimento con cui i minori affrontano la quotidianità, generato da un viaggio troppo lungo e pieno di fratture e dalla grande diversità tra il loro mondo prima e quello attuale. Facevamo ipotesi tentando di capire in che modo la loro mente elaborasse la ricchezza di un mondo spesso fraintesa e un passato certamente meno pieno di macchine, orologi, palazzi opulenti. Come superare questo disorientamento? Non pretendevamo certo di essere noi che avremmo ricomposto i pezzi, saldato le fratture che riempivano valige mai portate con sé. Anzi, adesso che ci pensiamo con la giusta distanza, ma chi viaggia senza valige? Non potevamo ricomporre i pezzi e non era più possibile consegnare valige a chi era partito senza. Potevamo costruire mondi dell’immaginazione. E dentro a questi mondi riportare le valige lasciate a casa. E riempire le valige di storie. Narrare storie, pensavamo, li avrebbe aiutati a ricomporre i pezzi, a ripensare ad essi oggettivandoli, a connettere il prima e il dopo. Il racconto avrebbe tessuto i fili, la rappresentazione scenica li avrebbe aiutati ad averne più piena consapevolezza.

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L’isola che (non) c’è
Entravamo ne L’Isola che (non) c’è con l’intento di realizzare uno spettacolo teatrale da portare in pubblico. Lo spettacolo non si sarebbe più realizzato, quantomeno non nella forma che avevamo programmato. Si sarebbe trasformato, però
e meglio ancora, in un progetto più ampio: la mostra fotografica A-tratti di Antonio Gervasi e il video Butterfly Trip di Yousif Latif Jaralla, presentati nei capitoli che seguono. Antonio, giovane per età, giovane per scatto, col suo sguardo poco contaminato e sfrontato, ci avrebbe mostrato quanto espressivo, narciso, furioso, ma anche docile, soave, timido fosse il corpo di questi ragazzi. Yousif, eccezionale cantastorie, un vero maestro nell’arte di incastrare pezzi di vita per sviluppare storie, ci avrebbe insegnato più tardi che per ottenere una storia non è necessario raccontarla. Una storia, ci insegnano le immagini di Butterfly Trip, può essere contenuta in qualsiasi cosa, in un oggetto che ti tocca il cuore, in una finestra aperta su qualcosa che non sai, in un cavallo bianco di nome Angona, in un lacrima, nella voce di un bimbo che chiama il papà o in un silenzio.
Entravamo ne L’isola che (non) c’è per narrare storie e metterle in scena. Storie vere e storie immaginate, ma sempre storie che nascevano all’interno dell’isola, mai prese da altre parti. L’isola rappresentava una cornice di finzione, un contenitore creato con l’obiettivo di facilitare il racconto di storie, emozioni e sentimenti realmente vissuti. In altri casi assumeva un ruolo più attivo, come parte dell’intreccio narrativo, quando a essere raccontati erano storie, spazi e personaggi immaginati e animati al suo interno. Altre volte ancora, l’isola coincideva con la Sicilia, luogo reale e allegorico carico di aspettative, desideri, ricordi: terra di sogni che orientano e frustrazioni che ‘smarriscono’.
Sebbene lo spettacolo non si sarebbe realizzato, l’esercizio dei ragazzi di donare le loro storie e metterle in scena e i nostri sforzi per sollecitare un percorso dotato di senso avevano un valore in sé e realizzavano obiettivi importanti per loro e per noi.
Innanzitutto narrare storie avrebbe permesso di ricomporre i fili tra passato e presente, la lacerazione tra il prima e il dopo, tra il sé che ci è familiare e il senso di straniamento prodotto dall’incontro con gli altri: che ci appaiono ancora più estranei se guardati dal punto di vista di un migrante. Mettevamo in gioco una dimensione archetipica della narrazione, esplorativa e analitica allo stesso tempo, che Salvo Pitruzzella così riscrive: Pensare per storie è il nostro quotidiano tentativo di dare senso al mondo […] La storia è il luogo ideale dove emozioni contrastanti possono essere messe in gioco e trovare un compromesso: permette una mediazione tra sé e gli altri; mette in connessione cornici diverse (Pitruzzella 2012, pp. 16-17).
Il secondo obiettivo puntava a dare corpo alle storie così da poterle guardare, sentire, toccare, per acquisirne più immediata consapevolezza e magari immaginare nuove direzioni da dare a quelle storie. Non intendevamo il teatro come rifugio, uscita di sicurezza da un presente che non ci piace, piuttosto come strumento per riafferrare la realtà e fantasticare su mondi virtuali ma possibili. Uno sguardo illuminante sull’uso del teatro da parte dei bambini come strumento simbolico e fisico per ricreare un mondo percepito come estraneo, inadeguato al proprio sé, ci viene offerto da Franco Lorenzoni:
I bambini si devono sempre adattare. Nessuna bambina o bambino ha scelto i suoi genitori, né la casa, la città, il paese e forse neppure il pianeta dove la loro vita ha attecchito. Ho la sensazione che è da questo lungo e difficile processo di adattamento che sia nato il teatro: dal nostro non essere mai completamente adatti ai luoghi in cui ci troviamo, e dalla necessità fisica di fantasticare altri spazi (Lorenzoni 2014, p. 228). Un terzo obiettivo realizzava l’esigenza da parte nostra di stabilire un contatto più profondo con loro, scoprire i personaggi che erano dietro ciascuno di loro, conoscere le loro attitudini, i sentimenti, i vizi, i vezzi, le speranze, i progetti. Volevamo capire meglio il loro rapporto con l’Italia e gli italiani, con noi, la Scuola, la città. Volevamo riempire di contenuti il vuoto dell’etichetta msna. E infine volevamo che i minori dessero la giusta dignità alle loro storie, che acquisissero fiducia depurando i propri racconti da qualsiasi senso di imbarazzo e disagio. Il playback theatre di Jonathan Fox, e prima di lui il teatro della spontaneità di Jacob Levy Moreno (sebbene su un terreno clinico che non ci ‘toccava’), ci offrivano strumenti perché ciò avvenisse. Luigi Dotti, che in Italia è uno dei massimi esperti e divulgatori delle potenzialità del playback theatre, cosi descrive quanto appena affermato:
Il playback si costituisce come spazio per le storie ‘non-ufficiali’, per coloro che soffrono e non sono ascoltati. La performance può aiutare a riscattare la storia; afferma il diritto di esistenza delle storie, non solo di quelle vincenti. È come se venisse ripetuto questo messaggio: “La tua esperienza è degna di attenzione e di arte e tendenzialmente effettiva, utile ed emozionante per gli altri” (Dotti 2006, p. 52). Entravamo ne L’isola che non c’è troppo rigidi, con i sensi intorpiditi, poco avvezzi all’ascolto di noi e degli altri. Prima di tutto dovevamo risvegliare i sensi e provare a entrare in un contatto profondo con gli altri. Abbiamo dedicato la prima parte del laboratorio a far questo. In altri termini ci dedicavamo a quelle che comunemente vengono definite attività di ‘riscaldamento’, ma che Augusto Boal chiama “giochesercizi”, giochi ed esercizi di demecanizzazione e despecializzazione, che sono molto di più di mere pratiche di riscaldamento, perché producono un forte ripensamento del nostro modo abituale di considerare il corpo e le sue parti. I giochi e gli esercizi producono una rivoluzione nel modo di pensare il corpo, e, viceversa, il ripensamento nel corpo produce una rivoluzione nel pensiero: il corpo pensa e il pensiero diventa corpo. Così il padre del teatro dell’oppresso descrive tale processo.
Nella lotta del corpo contro il mondo i sensi soffrono. E si comincia a sentire molto poco ciò che si tocca, ad ascoltare molto poco ciò che si ode, a vedere molto poco ciò che si guarda. Noi ascoltiamo, sentiamo e vediamo secondo la nostra specializzazione: il corpo si adatta al lavoro che deve realizzare. Questo adattamento è insieme atrofia e ipertrofia. Affinché il corpo sia capace di emettere e ricevere tutti i messaggi possibili, bisogna che sia riarmonizzato. È per questo fine che abbiamo scelto gli esercizi ed i giochi di despecializzazione (Boal 2005, p. 68) I giochesercizi ci rendevano più uniti e davano vigore alla nostra voglia di raccontarci, di raccontare delle storie e di metterle in scena.
Entravamo nell’Isola che non c’è attraverso i cinque sensi. Partivamo da lontano, dal luogo natale fino all’approdo in Italia. Abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontarci questo lungo viaggio cercando di ricordare ciò che sentivano, vedevano, toccavano, gustavano, odoravano. Questa attività si chiamava “Il mondo in una stanza”, almeno noi l’avevamo appresa con questo nome in uno dei nostri percorsi di formazione. Prevedeva tre consegne in sequenza: il posto in cui sei
nato; il primo viaggio importante della tua vita; il posto in cui vorresti vivere. Noi avevamo aggiunto la variante dei cinque sensi.
Era un’attività che conoscevamo molto bene, fatta e rifatta tante volte, e tutto si era svolto secondo le aspettative fino alla prima consegna: il posto in cui sei nato. Insieme ai ragazzi che raccontavano vedevamo montagne, prati, mari, deserto,
alberi, animali; sentivamo l’odore di cibi mai consumati e se richiesto li toccavamo anche. Sentivamo il vento, una musica, la voce di una mamma, di una sorella, di un fratello. Ma quando siamo giunti alla seconda consegna è accaduto qualcosa che non ci aspettavamo (non in quel modo, non in quel momento). Sentivamo cose che non ci era capitato di sentire nelle tante volte precedenti in cui avevamo svolto quell’attività. Il racconto si trasformava radicalmente. Ascoltavamo storie che non avremmo voluto sentire. I racconti iniziavano a odorare di sangue, di spari, di carceri; mostravano scene cruente di vessazioni i cui protagonisti erano uomini che non sarebbero mai diventate persone. Era la prima volta che realizzavamo “Il mondo in una stanza” con i minori.

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Entravamo ne L’isola che (non) c’è, questa volta ci entravamo davvero con la terza consegna dell’attività “Il mondo in una stanza”. Alla richiesta di descrivere il posto in cui vorresti vivere, i minori, divisi in gruppi, si alzano dalle sedie e consultano il planisfero alla ricerca di un luogo in cui sognano di vivere. Si divertono a fantasticare insieme alle ragazze. L’isola inizia a riempirsi di luoghi, di odori, di suoni, di cibo. Divisi in gruppi, i ragazzi e le ragazze fanno un elenco di cose che immaginano di trovare sull’isola immaginaria. In cerchio passiamo alla fase della restituzione in plenum, ed è molto sorprendente, strano e curioso ciò che viene fuori. Le isole immaginarie infondo sembrano assomigliare molto all’isola della quotidianità, alla Sicilia, a Palermo. C’è il profumo di fiori, l’odore dei cavalli e dei cani, della benzina, della carne arrosto, del caffè, delle melanzane fritte. Ci sono gli autobus, il pane, la pizza, dei letti. Ci sono anche i capelli di una ragazza che qualcuno di loro sogna di accarezzare. Entrati nell’Isola che (non) c’è ci è sembrato utile compiere un viaggio di ritorno per capire in che modo si vivesse da qui, da vicino, ciò che era lontano. Realizzavamo ciò attraverso una precisa richiesta: racconta quella volta che ti sei sentito solo. Fornivamo spazi di esplorazione dei loro ricordi più intimi, tentavamo di incoraggiarli a elaborare con maggiore consapevolezza quel sentimento nostalgico, di lacerazione, che spingeva la loro intima quotidianità a volgersi indietro.

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Lo strumento che utilizzavamo mescolava il teatro-immagine di Augusto Boal e il playback theatre di Jonathan Fox. Quello che veniva fuori risultava diverso dall’uno e dall’altro, tuttavia abbiamo cercato di mantenere i principi (molto simili tra loro) che ne avevano ispirato l’uso da parte dei due autori. Del teatro-immagine replicavamo la potenza scenica prodotta dall’uso di attori-statue nel rappresentare una situazione di oppressione. Attori immobili sul palcoscenico a rappresentare ciò che opprime producono un doppio effetto: esteriorizzano ciò che viene vissuto come fatto privato, intimo, e amplificano la nostra capacità di osservazione trasformando ciò che si vede in ciò che si guarda (Boal 2005, p. 139). Del playback theatre assumevamo il valore offerto dalla condivisione delle storie, dal fare comunità. Questa la prima sequenza: in piccoli gruppi ciascuno descriveva un momento in cui si era sentito solo; il gruppo sceglieva una storia tra quelle ascoltate; le storie venivano modellate in una immagine dal soggetto che aveva raccontato la storia; gli spettatori commentavano l’immagine, evocando possibili intrecci narrativi prodotti dall’immagine stessa (teatro-immagine). Era molto bello scoprire che il commento potesse suscitare ilarità, perché la storia che evocava era conforme o perché non lo era alla storia mostrata. La seconda sequenza: di seguito ai commenti, il protagonista condivide pubblicamente la storia raccontandola; alcuni attori le danno corpo muovendosi sulla scena (playback theatre). L’unione delle due tecniche amplificava il processo di coscientizzazione offerto dall’una e dall’altra. A Santa Chiara era accaduto questo. Uno dei minori racconta la storia di una lite con la mamma. Corre dalla ragazza, la quale cerca di rasserenarlo e saggiamente consiglia di tornare dalla mamma per far pace. Lui non è molto convinto, la ragazza insiste e così via. Era evidente che sentisse molto la mancanza della madre e della ragazza. Invitato dai conduttori a raccontare di fronte a una piccola platea composta da attori e spettatori quel momento in cui si era sentito solo dice: «Quando mi sento solo io penso a mia madre, a mio padre, alla mia ragazza…», e mentre dice queste cose e tutti noi ci aspettiamo che lui continui, tira fuori il cellulare dalla tasca e invia un messaggio di risposta alla sua ragazza. I conduttori rimangono perplessi perché individuano il cellulare come un elemento di disturbo, sollecitano quindi gli altri ad andare in scena e rappresentare quanto appena ascoltato. Un altro ragazzo che conosce bene il protagonista della storia indeciso sul da farsi chiosa: «Ma siamo sicuri che voglia stare davvero con lei?». Eravamo quasi giunti agli ultimi incontri, che dedicavamo alle storie inventate. L’isola che (non) c’è prendeva a riempirsi di storie strane, ironiche e anche divertenti. Lo spazio vuoto dell’isola iniziava a popolarsi di luoghi verosimili e improbabili, di personaggi strani e sopra le righe, di emozioni e sentimenti. Una coppia di naufraghi arriva con una barca su un’isola, viene ospitata da una famiglia ma nella notte decide di derubarla e scappare… i due si lasciano e alla fine lei si sposa con un dei figli della famiglia derubata… Un mostro su un’isola difende delle statuine preziose a grandezza umana da avventori che vorrebbero rubarle… Due fratelli giocano con un cane che u giorno muore. L’intera famiglia celebra il funerale, lo condisce e lo mangia. Due fratelli figli d migranti di religione musulmana si avvicinano alla religione cristiana, la mamma se ne accorge e mostra tutto il suo risentimento. La direttrice italiana di un ristorante italiano tratta con poco rispetto il cameriere africano. Il cameriere è molto affabile persino con una coppia di migranti che vanno al ristorante per mangiare qualcosa. Cameriere e clienti si alleano. I due clienti finiscono per litigare con la direttrice.
Apparentemente nulla tiene insieme tutte queste storie, se non la voglia di fantasticare, di creare storie. Di metter insiem realtà e stereotipi; qualche scena di film visti e rivisti; le esperienze di italiani, cinesi, bengalesi e africani uniti certamente da un immaginario comune in quanto eredità di giovani. Le storie erano finalmente libere. Se a conclusione del laboratorio di Narrazione e Teatro eravamo riusciti non più e non solo a entrare nell’isola ma a starci dentro con il desiderio di proseguire un cammino partito da lontano, con il desiderio di eliminare il (non) da L’isola che (non) c’è, con l’impegno di assumerne fino in fondo ciò che ci si trovava dentro, quanto fatto aveva avuto un senso. Piccolo, piccolissimo, ma un passo in avanti per condurci a quello che sarebbe venuto dopo: A-tratti e Butterfly Trip.

di Marcello Amoruso

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I testi e le foto del blog sono tratti dal libro  “Dai barconi all’università – Percorsi di inclusione linguistica per minori stranieri non accompagnati” a cura di Marcello Amoruso, Mari D’Agostino, Yousif Latif Jaralla edito dalla Scuola di Lingua italiana per Stranieri – Università di Palermo.

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